Antonio Di Nucci, l’arte dei formaggi che non conosce età

Antonio Di Nucci, padre dei maestri casari dell’Alto Molise: in un’intervista tutta la storia di quattro secoli nel segno dei Di Nucci. 

Intervista ad Antonio Di Nucci di Italo Marinelli (articolo pubblicato sull’Eco dell’Alto Molise)

«Scusami per il ritardo – mi dice Antonio di Nucci, classe 1925 in gran forma – ma dovevo assolutamente zappare l’orto e piantare le fave». Inizia così l’intervista ad un uomo che ha incentrato con profondissima convinzione, con testardaggine tutta capracottese, la sua esistenza su due valori fondamentali: il lavoro e la famiglia. Una famiglia che dal 1662 pratica la stessa attività, l’arte casearia, a partire dall’antenato Leonardo fino al figlio Franco ed ai suoi figli.

Quando hai cominciato a lavorare, Antonio?

«Ho cominciato a 10 anni. Aiutavo mio padre a fare scamorze e caciocavalli. Ero piccolo di fisico, ma non di mente. Mio padre, per gioco, mi dava la pasta di caciocavallo e io ci facevo dei pupazzetti. A quei tempi si cresceva in fretta».

Antonio Di Nucci al lavoro | Caseificio Di Nucci

Cosa faceva tuo padre?

«Era massaro, massaro di vacche per Ruggero Conti. Il massaro era una specie di capo-azienda, di amministratore delegato. Se eri capace facevi il massaro, altrimenti restavi pecoraio. Mio padre era massaro già a 15 anni».

E a scuola?

«Ho frequentato un po’ le elementari, ma il massaro, oltre a curare le bestie, a fare da sé le attrezzature, a commercializzare i prodotti e curare la contabilità insegnava anche a leggere, scrivere e far di conto a figli e dipendenti. Fu lui il mio primo maestro».

Poi venne la guerra.

«Sì, noi avevamo una proprietà a San Pietro Avellana, in una zona di combattimento. Mio padre aveva dimestichezza con la guerra, aveva fatto il soldato nella Grande Guerra, era stato sul Piave. Così non aveva paura. Neanche io avevo paura dei bombardamenti e delle esplosioni; non ho mai avuto paura di niente. Trovai anche una bomba a mano che feci esplodere ed un fucile mitragliatore inglese con cui sparai in aria diverse raffiche, facendo infuriare i miei genitori».

Antonio Di Nucci al militare | Caseificio Di Nucci

Ci furono requisizioni?

«Certamente, i tedeschi un giorno portarono via tutte le vacche. Una che non voleva salire sul camion fu giustiziata sul posto. Riuscimmo a macellarne una di nascosto, la tagliammo in grossi pezzi che mettemmo in un tinaccio ricoprendoli di sale. Il sale non mancava allora. Ma soprattutto riuscimmo a salvare cinque o sei capi con un trucco: li nascondevamo di giorno nel bosco e li portavamo al pascolo di notte. Da quei pochi capi, che avevamo selezionato per la loro qualità, rinacque dopo la guerra, poco per volta, anno dopo anno, una discreta mandria».

Il militare?

«A Modena e Pordenone nel ‘47. Facevo di tutto, dall’ordine pubblico al cameriere. Mi sono accorto subito che il Nord era davanti a noi, c’era più civiltà».

Poi diventasti massaro anche tu?

«Sì avevamo in affitto una grande proprietà dei Baroni D’Alena. Mettevamo gli animali all’erbaggio e subaffittavamo anche ad altri allevatori che ci fornivano il latte. Noi curavamo la trasformazione. Nel 1940 avevamo aperto un caseificio a Capracotta».

In seguito ti sei trasferito in Agnone.

«Siccome a Capracotta c’erano troppi casari pensai di spostarmi in Agnone, dove mi trovai subito bene. Agnone aveva 10mila abitanti e io ero conosciuto, ero il figlio di Giovanni che da 30 anni portava lì i prodotti, c’era già un rapporto di fiducia. E poi c’erano le scuole. Ho sempre tenuto molto a che i miei figli potessero studiare e in Agnone c’era il Liceo. Quando il mio primo figlio Giovanni, che voleva studiare medicina, mi chiese se lo potevo mantenere agli studi gli dissi subito di sì, anche a costo di vendere la casa».

Antonio e Franco Di Nucci | Caseificio Di Nucci

Intanto ti eri sposato…

«Con Ida Antenucci, nel ’50. Dopo qualche anno suo fratello Antonio venne anche lui in Agnone ad aprire un’azienda. Ida mi ha dato cinque figli che hanno studiato e fatto delle belle famiglie. All’inizio lavoravamo da soli. Ida metteva la culla nell’ambiente di lavoro; con il piede ‘nazzcava e con le mani faceva le trecce».

Cosa producevate?

«Principalmente latticini freschi, trecce. Allora si intrecciavano. Il latte era locale, fornito da 36 contadini. Avevano una, al massimo due vacche ciascuno. Alcuni di loro lavoravano il latte per uso familiare o per il piccolo commercio, ma i livelli igienici erano quelli che erano e molti non si fidavano. Il dottor Ippolito Amicarelli diceva «io quella roba non la mangio”. Fino agli anni ’70 la produzione di latte era insufficiente. Negli anni successivi è aumentata, per i miglioramenti tecnici che ci sono stati (capannoni, trattori, fienagione meccanizzata), ma il numero di allevatori è diminuito».

Da dove proveniva il vostro latte?

«Soprattutto dalla zona di Sant’Onofrio. Con i fornitori i rapporti erano buoni, ma bisognava stare attenti perché qualcuno aveva il vizio di allungare il latte con acqua, e non c’erano i mezzi per scoprirlo. E anche se me ne accorgevo qualcuno mi diceva. «il latte questo è, se non ti piace non prenderlo”. E a noi il latte serviva».

La qualità del prodotto si è modificata negli anni?

«Certamente sì, è molto migliorata, sia per la produzione che per la lavorazione. Questo non solo per il latte. Quando la pasta si faceva artigianalmente, per esempio, spesso era cattiva, ammuffiva perché non veniva asciugata, ogni spaghetto era diverso dall’altro. A volte buttavi un maccherone nell’acqua bollente e si rompeva in mille pezzi».

Quindi non tutto nel passato era più sano e più buono, come vorrebbe farci credere la pubblicità?

«Io sono sempre stato per la modernità ed il progresso e nel settore caseario, come in tanti altri, i progressi sono stati enormi, soprattutto dal punto di vista igienico. Le fesserie che si dicono sulla qualità dei prodotti di una volta sono tutte chiacchiere. Allora c’era più fame e tutto quello che si poteva mangiare sembrava buono».

Andavi in vacanza? (Antonio si fa una bella risata, nda).

«Ma che dici! Allora si pensava solo a tirare avanti la famiglia».

Antonio, quali sono secondo te le qualità di un imprenditore?

«Per fare un’ impresa innanzitutto ci vuole la stoffa. Poi è importante che ci sia un padre o un maestro che ti insegni bene il mestiere. L’imprenditore non può comandare e basta. Deve saper fare lui per primo, non può richiamare un operaio se egli stesso non sa fare bene quello che lui sta facendo male».

Tuo figlio Franco ha continuato la tua strada.

«Si è laureato in filosofia e sarebbe stato un ottimo docente, perché ama molto i bambini. Ma ha scelto di fare il casaro. All’inizio lo ho aiutato molto, ma poi l’azienda è cresciuta e adesso ha sedici dipendenti e impianti modernissimi, è conosciuta in tutta Italia e anche all’estero, ha vinto tanti premi».

E la terza generazione?

«Hanno studiato tutti. Biotecnologie, lingue straniere e giurisprudenza i figli di Giovanni e Antonietta. Franco ha tre figli: Serena si è laureata in Economia aziendale e Scienze Gastronomiche, Antonia in Storia dell’Arte, Francesco in Tecnologie Alimentari».

A testimonianza dello stretto legame che unisce arte e artigianato. Dunque la tradizione continua?

«Se ne hanno la volontà c’è sicuramente la possibilità».

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